La voce di NORISK SCF – Geopolitica, dazi e mercati in equilibrio instabile

La voce di NORISK SCF – Geopolitica, dazi e mercati in equilibrio instabile

Mercoledì scorso, durante il vertice NATO all’Aia, i 32 Paesi membri hanno firmato uno storico accordo per portare la spesa militare europea al 5 % del PIL entro il 2035, suddividendo l’impegno in un target del 3,5 % per la difesa “core” e un ulteriore 1,5 % per logistica, infrastrutture e resilienza.

Poche ore prima, però, la Spagna aveva già deciso di chiamarsi fuori: Pedro Sánchez ha dichiarato che il 5 % sarebbe “disproporzionato e inutile” e ha confermato l’impegno al 2,1 % del PIL, motivando la scelta con la necessità di non tagliare la spesa sociale o aumentare le tasse. La formulazione finale del comunicato, ammorbidita da “we commit” a “allies commit”, ha consentito a Madrid di rivendicare che il vincolo non è universale.

In una lettera riservata, il segretario generale Rutte ha inoltre riconosciuto a Sánchez la possibilità di definire in autonomia il percorso di convergenza con gli obiettivi NATO, lasciando spazio a interpretazioni differenziate. Resta però un nodo politico aperto: la Spagna, con appena l’1,24 % del PIL speso nel 2024, è il Paese con il più basso impegno dell’intera Alleanza.

Donald Trump non ha tardato a rispondere, definendo Madrid “notoriamente sotto gli standard” e minacciando di farle pagare “il doppio” nei negoziati futuri. Tuttavia, la Spagna sostiene che spendere di più non è sempre sinonimo di fare meglio.

Nel breve periodo il rischio un’escalation dei daziai danni della Spagna su più fronti resta una minaccia concreta, tanto più se Trump dovesse riuscire a portare sul tavolo il tema nel prossimo accordo commerciale UE‑USA. Probabilmente, conoscendo l’operato del Presidente americano, non sarà un’ultima parola, ma di certo aggiunge un ulteriore ingrediente di incertezza economica nell’economia europea.

Il punto è che la sfida tra Washington e Madrid potrebbe essere solo l’inizio. Con la Section 232 del Trade Expansion Act, Trump ha tra le mani una leva che consente di imporre dazi a piacimento in nome della sicurezza nazionale, indipendentemente da qualunque accordo commerciale firmato in precedenza. È lo stesso strumento usato per colpire acciaio e alluminio nel 2018, e che oggi è tornato centrale nei dossier USA. Il Dipartimento del Commercio è già all’opera, analizzando una decina di settori strategici (dai chip ai farmaci). Non si può escludere che l’esito di queste indagini si trasformi in nuove barriere tariffarie.

Ed è proprio questa incertezza a rendere il meccanismo tanto potente quanto destabilizzante. La Section 232 non è solo una minaccia preventiva: può scattare anche dopo la firma di un accordo, come strumento di punizione se il partner non si allinea ai voleri americani. È successo con il Regno Unito, che per mantenere l’intesa sull’acciaio ha dovuto garantire 10 miliardi di ordini a Boeing: il prezzo del libero scambio, pare, è stato fissato a Londra.

Tutto questo complica terribilmente la posizione dell’Europa. Anche se un accordo transatlantico venisse raggiunto, nessuno potrebbe escludere che venga riscritto di punto in bianco da Washington, semplicemente alzando il livello della pressione. È una variabile endogena e strutturale che non guarda ai fondamentali, ma alla volontà politica del momento.

In questo quadro, difendere la diversificazione e mantenere portafogli resilienti non è una scelta prudente, è una necessità. Perché, quando le regole cambiano senza preavviso, l’unico antidoto è costruire strategie che sappiano sopravvivere anche all’imprevedibile

Ma il fronte geopolitico non è l’unico ad agitare i mercati. Anche sul piano della politica monetaria americana si respira un clima di incertezza crescente, alimentato dalla combinazione fra aspettative sui tassi e clima elettorale. Dopo l’ultima riunione del FOMC, la Fed ha lasciato i tassi invariati e confermato l’orientamento prudente già discusso la scorsa settimana, con un sentiero di tagli più stretto per il 2025.

Nel frattempo, il dollaro prosegue nel suo progressivo indebolimento, in atto ormai da diversi mesi. Il cambio EUR/USD è tornato in area 1,17, ai massimi da oltre un anno, sostenuto da un mix di fattori strutturali: deficit pubblici e commerciali in crescita, attese di una futura Fed più accomodante e un contesto di rischio politico crescente. La possibilità che Trump scelga un successore “colomba” alla guida della banca centrale non fa che rafforzare questa narrativa.

Non ci sorprenderemmo nel vedere il cambio spingersi verso quota 1,20 nei prossimi mesi: le politiche portate avanti dall’ex presidente puntano esplicitamente a indebolire il dollaro per sostenere export e industria interna, e una Federal Reserve più allineata a questa visione potrebbe amplificare il movimento. In un contesto in cui anche la credibilità dell’istituzione monetaria viene messa in discussione, il cambio finisce per diventare uno degli specchi più nitidi delle tensioni in corso.

La dinamica del tasso di cambio EURUSD sembra essere influenzata dai movimenti dei tassi di interesse in particolare quelli forward (aspettative future). La parte inferiore del grafico sottostante evidenzia come il differenziale del forward a 2 anni tra EUR e USD presenti un forte legame con la dinamica del tasso di cambio. Un punto di allerta è il fatto che il rafforzamento della valuta comune possa rallentare oltremodo la crescita economica.

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In tutto questo, l’S&P 500 continua a macinare nuovi massimi, ma non tutto luccica come sembra. Lo yield reale dell’indice – cioè, il rendimento corretto per l’inflazione – è sceso al 2,76 %, il livello più basso dai primi anni 2000. Se confrontato con il rendimento reale dei Treasury a 10 anni (circa 2,03 %), lo spread fra azioni e bond si è ridotto a soli 73 punti base: il margine più stretto degli ultimi vent’anni.

Tradotto in parole semplici: il premio per restare investiti in azioni rispetto a titoli di Stato sicuri è sempre più risicato. E se i multipli restano così tirati mentre l’inflazione rallenta e i tassi restano alti, il rischiodi un periodo di rendimenti deludenti aumenta sempre di più.

Per ora, il rally è stato trainato da pochi titoli molto grandi, ma quando i fondamentali si comprimono e il margine di errore si assottiglia, anche il mercato più forte diventa vulnerabile. E in un contesto dove i rendimenti si assottigliano e le incertezze aumentano, la differenza non la si fa rincorrendo la performance, ma costruendo portafogli in grado di reggere anche quando il vento smette di soffiare a favore. La gestione del rischio torna al centro: non come difesa, ma come scelta strategica.

admin@norisk.it
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