La voce di NORISK SCF – Mercati sospesi sull’asse USA-Europa

La voce di NORISK SCF – Mercati sospesi sull’asse USA-Europa

Settimana decisiva, clima da quiete prima della tempesta.

I mercati si muovono senza scossoni apparenti, ma il calendario corre veloce verso una data che potrebbe segnare un nuovo strappo negli equilibri globali: il 9 luglio, ma forse la deadline potrebbe essere spostata al primo agosto non facendo mancare la consueta incertezza sulle possibili evoluzioni.

È il giorno in cui scade l’ultimatum lanciato dall’amministrazione Trump. O si chiudono accordi bilaterali oppure scatteranno daziunilaterali e generalizzati sulle importazioni verso gli Stati Uniti. E questa volta l’Europa non è spettatrice: è bersaglio designato.

Si parla molto del 10%, ma più che una minaccia, quel numero rappresentail livello a cui Bruxelles spera di piegare l’ira americana. Da Washington sono arrivate indicazioni ben più aggressive, con l’ipotesi di tariffe significativamente superiori già esplicitata su più fronti. Il 10%, paradossalmente, rappresenta la speranza minima dell’Unione, non lo scenario peggiore.

In questi mesi l’Europa ha provato ad accontentare Washington su più fronti: ha accettato, seppur a denti stretti, l’aumento delle spese militari al 5% del PIL nei vertici NATO. Ma non è bastato. Trump non tratta da partner:tratta da creditore, e considera l’Europa un cliente privilegiato, ma debole. Una potenza economica che però, senza una politica industriale comune, senza una difesa condivisa e senza sovranità digitale, diventa irrilevante nel momento in cui il tavolo negoziale si scalda.

In realtà, la debolezza europea non nasce con questo ultimatum, né si esaurirà il 9 luglio. È il prodotto divent’anni di scelte rinviate, di un’Unione che ha preferito integrarsi con le regole di bilancio anziché con quelle strategiche. E ora, quando l’America detta condizioni e la Cina costruisce leadership industriale, l’Europa si scopre priva di leve, costretta a negoziare con strumenti spuntati e con la speranza che l’avversario sia più morbido del previsto.

A rendere il tutto ancora più instabile è un altro elemento: l’imprevedibilità politica.

Il problema non è solo il livello del dazio, ma il fatto che Trump può cambiare le carte in tavola anche dopo un accordo. Questo rende fragile ogni negoziazione e spinge molte imprese europee a bloccare gli investimenti in attesa di chiarezza.

In questo contesto, la data del 9 luglio non è il vero rischio. Il rischio risiede in cosa verrà dopo.

Quando, anche con un’intesa in mano, ci si chiederà quando arriverà il prossimo attacco. Ormai non si tratta più di negoziare: si tratta di imparare a convivere con un nuovo modus operandi, fatto di pressioni, colpi di scena e ricatti a ciclo continuo.

Nel frattempo, mentre l’Europa cerca un equilibrio precario tra concessioni e speranze, l’amministrazione americana procede senza tentennamenti. Il Congresso ha approvato, e Trump ha firmato, l’One Big Beautiful Bill Act: una manovra che riscrive la politica fiscale ed economica americana per il prossimo decennio.

Il messaggio è chiaro: meno tasse, meno welfare, più difesa, meno transizione green. Il tutto finanziato con l’unica cosa che non sembra più spaventare nessuno a Washington: il debito pubblico.

La manovra rende permanenti i tagli fiscali del 2017 per imprese e famiglie, amplia i crediti d’imposta per redditi da lavoro e taglia in modo netto la spesa per sanità, assistenza alimentare e incentivi ambientali. L’obiettivo non è solo alleggerire il carico fiscale, ma ridisegnare le priorità sociali, industriali e strategiche del Paese.

Spariscono i crediti alle rinnovabili. Si riattivano concessioni fossili e incentivi per il nucleare. Il piano è talmente sbilanciato da aver provocato fratture anche all’interno del fronte repubblicano.

E in questo clima si inserisce anche una mossa che ha agitato mercati e politica: Elon Musk ha ufficializzato la nascita del suo “America Party”, posizionandosi come alternativa personalistica al trumpismo, con toni libertari, isolazionisti e pro-business.

Ovviamente, la reazione è immediata, tant’è che nel momento in cui scriviamo, lunedì mattina, il titolo Tesla cede il 6,5% in pre-markets. Cresce il timore che Musk non sia più concentrato sul suo business principale, proprio mentre l’azienda mostra segni evidenti di rallentamento operativo, con dati di consegna del secondo trimestre inferiori alle attese.

In definitiva, più che una legge economica, l’One Big Beautiful Bill Act è una dichiarazione d’intenti: meno redistribuzione, meno ambiente, più produzione e consenso. Una manovra pensata percolpire l’opinione pubblica, più che per riequilibrare i conti.

Il punto ora è capire quanto i mercati siano disposti a credere a questa scommessa. Perché tra politica fiscale espansiva, dazi in arrivo e tensioni geopolitiche, anche l’apparente tranquillità degli indici potrebbe iniziare a incrinarsi. Lo si vede già nell’azionario, dove le performance raccontano due storie molto diverse tra Europa e Stati Uniti.

Da inizio anno l’azionario europeo ha corso con forza mentre l’azionario americano ha vissuto una prima parte dell’anno sottotono. Ma tutto è cambiato con il “Liberation Day”: da quel momento, Wall Street ha accelerato con un rally guidato soprattutto dal settore tecnologico.

Contenuto dell’articolo

Oggi, in valuta locale, l’indice europeo mantiene ancora un vantaggio di circa 5 punti percentuali sull’S&P 500. Ma per un investitore europeo, il quadro è ben diverso.

Con il cambio euro dollaro a 1,173, la performance dell’azionario USA in euro è ancora negativa da inizio anno, intorno al –6%.

In questo contesto, le performance passate raccontano solo una parte della storia.

I mercati oggi prezzano un equilibrio che potrebbe cambiare in fretta: basta una dichiarazione, un dazio, un tweet fuori orario per rimettere tutto in discussione.

Con il 9 luglio alle porte, e una retorica politica sempre più aggressiva, la parola d’ordine resta una sola:diversificare e tenere alta la prudenza.

admin@norisk.it
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