La voce di NORISK SCF – Tensioni nel Golfo: attacco USA all’Iran e timori per il prezzo del petrolio

La voce di NORISK SCF – Tensioni nel Golfo: attacco USA all’Iran e timori per il prezzo del petrolio

Nella notte fra sabato e domenica l’esercito americano, con bombardieri B‑2 e sottomarini, ha colpito i tunnel dei complessi nucleari di Fordow, Natanz ed Esfahan. La reazione di Tehran non si è fatta attendere e, dopo aver definito l’attacco un “atto barbarico” ha promesso ritorsioni.

La prima di queste è arrivata qualche ora più tardi quando il Majles approva una mozione che affida alla Guida Suprema la facoltà di chiudere lo Stretto di Hormuz, collo di bottiglia da cui transita circa il 20 % del greggio mondiale.

Il Segretario di Stato Rubio ha avvertito che bloccare Hormuz sarebbe «suicidio economico», lasciando intendere la possibilità di una risposta militare. È bene ricordare però che Arabia Saudita ed Emirati dispongono di vie di bypass parziali: un blocco totale danneggerebbe Tehran più dei vicini ed è osteggiato dal principale cliente iraniano, la Cina. Il premio di rischio resta, ma l’offerta mondiale non verrebbe azzerata.

Alla campanella di apertura di lunedì il prezzo del petrolio è scattato fino a 77 $/bbl ma ha rapidamente ripiegato sui valori di venerdì. Sul fronte equity, nella mattinata di lunedì l’Europa viaggia sulla parità, mentre i futures USA oscillano in lieve rialzo di qualche decimale: nessuno scossone degno di nota, almeno per ora.

Negli ultimi 3 mesi il future con la scadenza più vicina del prezzo del petrolio (CO1, linea bianca nel grafico) ha messo a segno un aumento di circa +16 %, mentre il contratto 12‑mesi forward (CO12, linea arancio) è di qualche punto sopra alla parità. La divergenza si è ampliata nelle ultime settimane e si è allargata ulteriormente dopo il raid: oggi lo spread spot‑forward vale circa 6 $/bbl (≈ 8 %). Il grafico sottostante ne fa emergere subito il punto‑chiave: il mercato sta pagando un vero e proprio premio di guerra sul breve termine (tanto maggiore quanto più vicina è la consegna) ma non scommette (ancora) su un deficit strutturale a 12 mesi.

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Per gli investitori la domanda resta chiara: quanto può pesare una minaccia che corre lungo appena settanta chilometri di mare proprio mentre la Federal Reserve fatica a convincersi che l’inflazione sia davvero sotto controllo?

Mercoledì 18 giugno il FOMC ha confermato il corridoio 4,25-4,50 %, rinviando qualsiasi taglio e sottolineando che «l’incertezza su dazi e tensioni geopolitiche impone prudenza».

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Le nuove proiezioni mostrano che i membri prevedono solo due riduzioni nel 2025, contro le quattro ipotizzate a marzo, mentre Powell ha avvertito che gli shock tariffari potrebbero tenere l’inflazione «significativamente sopra il 2 % ancora a lungo».

Ciò significa che ogni fonte di rincaro (anche solo temporaneo) rischia di dilatare i tempi di un allentamento monetario.

Qui entra in gioco l’aritmetica del petrolio: un aumento di 10 $/barile sul Brent vale in media 0,3 punti di CPI negli Stati Uniti e nell’Eurozona.

Se al fattore energia sommiamo il maxi-deficit della “Big Beautiful Bill”, il risultato è un mix che spinge la parte lunga della curva Treasury a chiedere un rendimento maggiore: il temuto bear-steepening.

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Il grafico mostra l’evoluzione dello spread fra i rendimenti a 10 e 2 anni: prima del FOMC scende verso 42 bp, subito dopo il meeting rimbalza a 47 bp. Il movimento segnala che il mercato chiede un premio più alto sul tratto lungo della curva perché i tagli saranno pochi mentre i rischi inflattivi (dazi, petrolio) restano elevati.

A poche ore dalla conferma dei tassi il presidente Trump ha pensato bene di bollare Powell su Truth Social come «testa vuota» e di minacciare di rimuoverlo se servisse. Folclore politico, d’accordo, ma resta un promemoria che la credibilità della Fed può finire nel mirino della Casa Bianca ogni volta che la traiettoria dei tassi scontenta qualcuno.

La scorsa settimana la Banca Nazionale Svizzera ha tagliato, portando i tassi allo 0%, la BoJ ha confermato il tetto allo 0,25 % sul decennale, mentre BCE e BoE mantengono il timone su mini-tagli graduali. Risultato: lo spread fra il tasso Fed e la media G10 è tornato sopra 250 bp, spingendo euro e soprattutto franco svizzero.

In un periodo così turbolento, l’unica costante su cui possiamo contare rimane la disciplina nel gestire il rischio: teniamola ben stretta.

admin@norisk.it
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